SUL “PESCE POVERO” LA CERAMICA DI LUCIO LIGUORI

A cura di Raffaele D’Andria
“Impostava, modellava, infornava. Sfornava lucerne, pedali e cuccume. Le segnava coi cerchi concentrici che molto tempo prima servivano a far comunicare i vivi coi morti in una lingua che nessuno più conosce. Terrecotte sottili e sonore, porose, umide, trasudanti. Cuccume che trattenevano la freschezza dell’acqua.
Tanto perfette e sottili che un grido avrebbe potuto creparle”
Oltre che alle terracotte sottili di zi Uel u Furnaciar, di sicuro Mariolina Venezia avrebbe potuto affidare l’incipit di Mille anni che sto qui, un romanzo di personaggi arcaici del profondo Sud, “di storie, tradizioni e modi di dire”, anche al pesce povero di Lucio Liguori. Come quelle di zi Uel, le mani di Liguori sono veloci e precise; accarezzano anch’esse “con delicatezza i fianchi rotondi delle cuccume e delle brocche, come dio deve aver accarezzato quelli di Eva, il giorno della creazione”. Anche le mani di Liguori modellano la creta con la cadenza di gesti sapienti, ne indirizzano la forma su passaggi plastici necessari. Nell’uno e nell’altro, i gesti si alimentano dell’istinto che è proprio della memoria; in esso trovano i ricordi di un fare indotto da antiche tradizioni, secondo rituali di ricalchi, ma anche di trasgressioni, di prove e riprove, ma anche d’invenzioni e di fantasie, tra cotture, smalti segreti e voti a Sant’Antuono, protettore del forno.
Non è un caso, d’altra parte, che Liguori, vincendo la sua ritrosia e rivelando l’esigenza a ripensarsi nelle vicende della propria crescita, ami a volte ripercorrere con parole scarne il primo incontro con la creta e con la faenzera. All’inizio, all’età di dodici anni, fece il cosiddetto ‘fattore ‘e creta’, per poi fare lo stampa-tore, il cui compito era nello stendere col ‘lavanturo’, una sorta di mattarello, una
‘pizza’ d’argilla, nel renderla aderente allo stampo e quindi lavorarla e rifinirla per ottenere piatti di varia tipologia.
All’età di sedici – quando gli occhi “correvano a ‘rubare’ il segreto di un gesto… per poi allenarsi di sera, all’infuori dell’orario lavorativo” 2 – Liguori diventa torniante, vale a dire ‘cupaiuolo’
, “che è quello che lavora il ‘cupame’,
l’insieme dei vasi infornato nella stanza più alta del forno”. 3 Intorno al ‘fusillo’, che è l’asse del tornio, apprende la modellazione dell’argilla, a cui è preliminare l’eliminazione dei vaculi d’aria. Apprende che dal ‘pallittolo’, la quantità di argilla utile ad ottenere una determinata tipologia ceramica, “centrato sulla ‘rota’ già in movimento, si tira un cilindro che viene successivamente allargato e, quindi, tirato su con una strozzatura superiore necessaria per alzare, verso la parte del bordo, una
“riserva’ di argilla. Da questo momento ci si regola in base alla forma da tornire,
portando di conseguenza la ‘riserva’ su per il collo”.
Realizzando vasi, brocche, lucerne, candelabri, coperchi, Liguori, però, realizza anche una contestuale condizione pre-decorativa’, che è una sorta di soglia d’impostazione per eventuali, ulteriori rifiniture, tutta interna alla crescente tensione del gesto modellante.
In realtà, quest’ultimo porta con sé e mette in luce le sue complessive potenzialità, anche quelle inizialmente nascoste, di risvolto; e se per zi Uel la forma è risolta – com’è probabile – in una decoratività di “fase zero’, che è quella della semplice terracotta invetriata, più o meno associata a “cerchi concentrici”; se per altri lo è nella sottolineatura degli snodi o nel riempimento del corpo plastico, per Liguori, invece, questa stessa fase ha ben diverse implicazioni ed estensioni. In essa, infatti, convergono innanzitutto aspetti e oggetti a partire dai quali si rappresentano le micro-storie del ‘ceramicare’
– a voler usare una definizione di ampio significato, introdotta da Ugo Marano – S, declinate sullo sfondo suggestivo del luogo e del suo vasto orizzonte di mare, vissute nella luce dei suoi frammentati riverberi, nella densità di ombre nette.
Di conseguenza, è inevitabile che le implicazioni e le estensioni rimandino ad alcuni personaggi ormai mitici: ai loro modi di essere nella natura delle diverse origini, alle reciproche influenze ‘discorsive”, ai segni dei loro linguaggi, affidati con semplicità a un immaginario di scoperta e di reinvenzione.
Si pensi, quindi, a Riccardo Dölker e ai suoi percorsi di ‘apprensione’ visiva; al trasferimento di questi stessi in una plastica costruita sulla nitidezza rievocativa della linea; si pensi alla Kowaliska, autrice di un ‘paesaggio’ inventato sull’in-cantamento dello sguardo, con un riporto simbolico di case, di uomini, di donne e bambini, spesso ancorati ad un nome o ad un animale, spesso racchiusi in un profilo di cuore. Si pensi anche, in parallelo, a decoratori come Antonio Solimene, Giovannino Carrano, ai quali va dato il merito – ed è questo un tema ancora tutto da sviluppare – di aver personalizzato la maniera “alla tedesca”, a volte recuperando a essa i motivi propri della tradizione vietrese.
Interiorizzando le personalità di Dolker e della Kowaliska – che è l’incipit di un articolato racconto di formazione, che va ben oltre queste stesse Figure – sen di un ana dubbiosità e con sciolezza, il gesto modellante di Liguori tocca una seria decorativa che ne ricontestualizza i valori iconografici. Impaginate con un ben deverso orientamento, da tale soglia derivano solizioni che sciolgono la “madre con bambino’ della Kowaliska, come pure le casette, i pescatori e i pastori, dalla loro astratta spazialità, e quindi dalla loro ‘esemplarità.
Le soluzioni riguardano il riposizionamento di tali figure nel luogo di un collettivo segnico che apre a una sorta di ‘paesaggio’ del vissuto, dove l’identita di uomini e cose è resa con sequenze continue, con serrati incastri formali. E’ un ‘paesaggio’, quello di Liguori, i cui incastri, molto spesso, non sono appiattiti in una ingenua narrazione (pseudo)popolare, com’è nello stile di molti ceramisti e decoratori locali, bensì sono ritagliati nello spessore delle cose rappresentate; e lo sono mediante assonometrie sbilenche, irregolari, accentuate da un unico colore di profondità, e con visuali variamente angolate.

È quanto avviene, ad esempio, in un pannello di grande formato e di colore verde ramina chiaro, il quale è incentrato su un grande ponte – che è quello di Furore – , collegante due centri abitati densi di personaggi, ed ha sullo sfondo il mare, sulla destra, la montagna (Fig. 1). In esso le case hanno una particolare evidenza: alte, piccole, strette o larghe, con finestre o senza, sono tutte a volta e orientate secondo due direzioni assonometriche, sulle quali prevale l’arco del ponte. In altri pannelli, alcuni molto colorati, la rappresentazione assonometrica vede prevalere, invece, lunghe scale a schiena d’asino, affiancate da un insieme serrato di case di colore bianco, sovrastate a loro volta da una cupola a spicchi: il tutto allusivo a Vietri, alla sua chiesa, ai suoi profili. In altri, ancora, la scala è assunta come un elemento intorno al quale si struttura l’intero paesaggio’, spesso con un dimensionamento in senso circolare e falsamente prospettico, dominato da un nucleo generatore (fig2). Quest’ultimo, non sempre a profilo circolare, è presente anche nei pannelli più recenti; in essi, infatti, il paesaggio’, sempre dominato da case bianche su un fondo azzurro, è sfettato in molteplici campiture d’incastri, che si metamorfizzano divenendo altro: ad esempio, ed è cosa frequente, un tassellato di sintetici pesci bidimensionali® (Fig. 3).

Il motivo del ‘pesce – al quale a volte è associato, in senso più o meno complementare, quello delle scaglie o delle onde – è la cifra stilistica del “ceramicare’ di Lucio Liguori, che ancor più si caratterizza nell’adesione alla
tipologia di supporto.
Rispetto a questa, non è infrequente che il gesto modellante, spinto da uno sguardo attento e vorace, faccia proprio il rimando anche alle tipologie più tradizionionali e antiche, a partire da quelle di cultura greca, depositate nelle stratigrafie profonde del luogo. Tra queste ultime, infatti, di particolare interesse è la riproposizione di alcuni fish-plates presenti nel Museo Archeologico di Paestum: risalenti all’incirca al IV sec. a.C., di forma circolare, con le tese ripiegate sullo spessore del piatto, sono caratterizzati da una decorazione con pesci di varia natura, che contornano un incavo centrale.
Si tratta di una riproposizione quasi di ricalco, nella quale Liguori mostra la consapevolezza – ed è questo un aspetto di grande modernità del suo ‘ceramicare’ – che ogni “tradizione è una traduzione, e che tutto è traduzione” (Sanguineti). Di conseguenza, rielabora la forma del fish-plates sia nella componente dimensionale, sia in quella decorativa, introducendo un sottile décalage sul rapporto tra la prima e i tratti fluidi ed essenziali della seconda, con colori che citano il pesce nel rimando a quelli antichi (Fig. 4).

L’effetto di décalage ha, però, anche una declinazione variabile; ed è questo il caso, ad esempio, di una sorta di “zuppiera’ di smalto azzurro raku, che sembra ripresa dai modelli ottocenteschi. Rispetto a questi ultimi, in realtà, essa si distingue, non solo per la forma, ma soprattutto per il raccordo tra questa e la decorazione, come sempre essenziale e immediata. Oblunga, tronco-conica e priva di piede, con un coperchio molto rilevato, su cui si attesta un lungo ‘pesce povero’ come punto di presa, la ‘zuppiera’ presenta nella parte alta del suo corpo una decorazione a onde imprecise e sbiadite, che fuoriesce dal proprio limite per assumere la funzione di due manici arricciati, l’uno inverso dell’altro (Figg. 5, 6).
Un’ulteriore declinazione è in quei piatti nei quali il ‘pesce povero’, a volte leggermente a rilievo, in versione singolare o plurale, si centralizza in un mare greco di smalto cristallino, non senza rimandare ai modi decorativi di Guido Gambone, che pure fece del pesce un suo ricorrente motivo decorativo (Fig. 7).
Interessante è, però, l’ultima declinazione compositiva di Lucio Liguori: quella in cui il ‘pesce povero’, con pochi gesti – gli stessi che, ancora una volta, s’immaginano nel ‘ceramicare di zi Uel u Furnaciar -, è fatto plastico nella pienezza di un piatto; in cui la cottura raku ne restituisce la verosimiglianzavetrosa delle scaglie, la velatura dell’occhio aperto, in una vivacità che è tutta di luce e di natura (Fig. 8).
